IL SANGUE VERDE di Andrea Segre (ZaLab - 2010)

La voce dei braccianti africani che hanno manifestato a Rosarno

contro lo sfruttamento e la discriminazione.

7 volti, 7 storie e un'unica dignità.

Gennaio 2010, Rosarno, Calabria. Le manifestazioni di rabbia degli immigrati mettono a nudo le condizioni di degrado e ingiustizia in cui vivono quotidianamente migliaia di braccianti africani, sfruttati da un'economia fortemente influenzata dal potere mafioso della 'Ndrangheta. Per un momento l'Italia si accorge di loro, ne ha paura, reagisce con violenza, e in poche ore Rosarno viene "sgomberata" e il problema "risolto". Ma i volti e le storie dei protagonisti degli scontri di Rosarno dicono che non è così. Scovarle e dare loro voce è oggi forse l'unica via per restituire al Paese la propria memoria: quella di quei di giorni di violenza e quella del proprio recente quanto rimosso passato di miseria rurale.
Prodotto da ZaLab in coproduzione con Aeternam Films con la collaborazione diRAI3 - Doc3 JoleFilm e la partecipazione di AAMOD con il patrocinio di Amnesty International- sezione italiana vai a credits completi

domenica 15 novembre 2009

“Il sangue verde”, se Rosarno non è mai finita. La voce di un testimone, Kalifa Soumahroro

“Il sangue verde”, se Rosarno non è mai finita. La voce di un testimone, Kalifa Soumahroro“Nessun essere umano ha il sangue verde”. Questa frase rappresenta uno dei momenti più intensi del documentario “Il sangue verde” di Andrea Segre, premio CinemaDoc alle Giornate degli Autori alla Mostra del Cinema di Venezia 2010, proiettato al Museo Diffuso della Resistenza, nell'ambito del programma Turin Earth.

A pronunciarla è Abraham, un giovane del Ghana che ha vissuto l’inferno di Rosarno, in quel gennaio 2010 che fece esplodere la rabbia degli immigrati sfruttati nella raccolta delle arance, oggetto di intimidazioni e minacce da parte di piccole bande di stampo mafioso. In quelle ore, l'Italia si è accorta di loro, ne ha preso paura e ha reagito con violenza.


Kalifa Soumahroro è uno dei testimoni dello sfruttamento in Calabria e ci racconta la sua storia: “Sono fuggito dal mio paese, la Costa d’Avorio a causa della guerra. Lì lavoravo per una società francese del settore agroalimentare. Avevo la mia famiglia, la mia casa ma la guerra mi ha costretto a fuggire. Dell’Italia sapevo solo che aveva vinto i mondiali di calcio, sono approdato nel vostro paese per povertà e miseria”. L’Italia era la terra promesse per Kalifa arrivato prima a Foggia, poi a Crotone e, infine, a Rosarno tramite altri conoscenti immigrati. La sua dimora, da allora, diventa una vecchia fabbrica abbandonata. Lì troverà altri immigrati del Burkina Faso, del Mali, del Marocco. Molti regolari, tanti con il solo permesso di lavoro. 1500 persone stipate, ammassate, dalla precarie condizioni igieniche, senza acqua calda, senza un letto o un pasto caldo.

La giornata che ci racconta è disturbante, come lo sono state le immagini che ci hanno propinato le tv in quei giorni: “Lavoravamo nei campi 13 ore al giorno. La sveglia era alle 4 per percorrere i 50 km che ci avrebbero portato nei campi della Piana di Gioia Tauro. Facevamo una pausa di mezz’ora senza cibo o acqua ma spesso sotto la pioggia, alle 12,30-13 riprendevamo a lavorare fino alle 19; poi, nuovamente di ritorno verso Rosarno, dove arrivavamo non prima delle 20,30-21”. Tutto questo per 25 euro, neppure al netto della fatica, ovviamente, ma spartiti con caporali che li ricattavano se non raccoglievano almeno 35 cassette al giorno, nella “terra di Sud” in cui il potere della 'Ndrangheta è cresciuto negli ultimi anni fino a portare al commissariamento per mafia dell’amministrazione comunale. La stessa 'Ndrangheta che a livello nazionale fattura annualmente, secondo i dati più recenti, circa 40 milardi di euro, il 3% del Pil del nostro paese.

La cacciata dall’inferno, scortato dalla Polizia, è raccontata come una liberazione da Kalifa. Seguirà l’approdo a Roma, dove tramite un’associazione di carità riuscirà ad ottenere il permesso di soggiorno, a Napoli come vucumprà e a Cuneo dove oggi lavora nei campi per la raccolta delle mele o delle pesche, “ma a condizioni migliori”, precisa. L’Italia che ha visto Kalifa è quella che, secondo i dati riportati nel documentario, a fronte di 350 mila clandestini nel 2009 spende solo 150 milioni di euro per politiche di integrazione ed accoglienza.

“Gli immigrati non sono oggetti delle emergenze e dei problemi, ma sono soggetti che vivono, soffrono, sorridono, godono, faticano, riflettono, decidono. Ma per farlo devono prima di tutto lottare contro la superficie della loro condizione pubblica, non privata, non soggettiva di immigrato”, dice Andrea Segre, regista del documentario.

A Rosarno, secondo Silvia Pescivolo, responsabile del Coordinamento nazionale Rifugiati di Amnesty International, “la raccolta delle arance sta per ripartire mentre non sono partiti i tanti progetti di accoglienza destinati ai migranti”.

Secondo
Stranieriinitalia.it
“al momento l’unico progetto ufficiale, riconosciuto dal governo, è “Obiettivo 2.5”. Si tratta di un piano che prevede di trasformare il cementificio della Beton Medma, confiscato alla mafia, in un edificio da 60 posti letto con spazi annessi da dedicare all’intrattenimento e la formazione degli immigrati e dei loro famigliari. Il progetto è indubbiamente ambizioso ma lo stato dei lavori denunciano un ritardo sostanziale e il termine non è previsto primo del prossimo anno”.

“Il sangue verde” un risultato lo ha già prodotto: sul web è nato l'Osservatorio Braccianti, un portale che ospita le segnalazioni e le notizie relative alle condizioni dei lavoratori agricoli immigrati in Italia. Il servizio offre una visione geografica aggiornata del fenomeno, che può essere direttamente implementata da chiunque abbia informazioni, testimonianze, foto, video da segnalare, per la propria osservazione diretta del fenomeno, o provenienti da testate giornalistiche, tv, weblog e siti informativi.

Gli immigrati che erano a Rosarno con Kalifa, quelli del documentario, non sono più a Rosarno; molti sono nel Lazio, in Campania, altri sono migrati all’estero. Kalifa non criminalizza il nostro paese per ciò che gli è accaduto e, alla fine del nostro incontro, aggiunge anche che potrebbe trattarsi del suo “paese d’arrivo definitivo”. E’ convinto che la rivolta di Rosarno abbia già prodotto dei risultati tra gli immigrati che vivono in Italia, che la “caccia al nero” non sarà per sempre. Vorremmo crederci anche noi.

Post originale
da Partenze e Arrivi

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